lunedì 11 agosto 2014

Affreschi, atti vandalici e musei di ruderi

Deposizione
Giotto, 1303-05, affresco,
Cappella degli Scrovegni, Padova
Questi giorni sono stati creati inutili allarmismi da parte di chi esperto d'arte non è. Si parlava di ipotetici atti vandalici ai danni di uno dei monumenti più importanti della mia città (anche se atti vandalici ci sono stati in un'altra zona, con i soliti furti di bronzo e rame). In realtà erano oggetti in frammenti da che sono stati musealizzati dopo gli ultimi restauri, recuperati in locali in disuso. Capita molto spesso di trovare, all'interno di cripte o ambienti in posizioni particolari, tanti oggetti che altro non sono che opere rimosse dall'interno della chiesa nei secoli precedenti, probabilmente a causa di spostamenti, ripristini, restauri, aperture di finestre, porte, cappelle. Ci sono esempi illustri di questo tipo di musealizzazione, come il Museo di Cluny. Qui sono state poste le teste dei re che adornavano le facciate della cattedrale di Notre-Dame di Parigi, staccate durante la Rivoluzione Francese, il trumeau di san Marcello del portale di Sant'Anna, come anche le prime statue gotiche della stessa chiesa e di altre della Francia, databili al XII secolo. Forse ancora più sconvolgente di epigrafi scheggiate ed elementi decorativi a metà, è vedere affreschi butterati.
Buchi allineati su tutta la superficie del dipinto, a sfregiare l'immagine, non sono infrequenti, specie nelle chiese romaniche, chiese che hanno attraversato i secoli ammodernate continuamente, seguendo i nuovi stili. Sono vere e proprie picconate, colpi di mazzuola con il compito di rendere ruvida la superficie.
La ragione di questo tipo di lavoro risiede nella necessità di permettere al nuovo intonaco di attaccarsi alla parete. Una superficie liscia non avrebbe permesso di poter dipingere nuovamente sullo stesso muro e far sì che questo nuovo dipinto fosse duraturo, mentre staccare tutto l'intonaco era un lavoro inutile, perché altrimenti si sarebbe dovuto comunque sopperire ai dislivelli creati dal reticolo di pietre che compongono la parete. Questa tecnica dall'apparenza brutale ricicla la preparazione del muro precedente e dei suoi strati più profondi. 
Un primo strato era infatti il rinzaffo: era un intonaco a grana grossa, con sabbia e calce. Questo tipo di intonaco va a riempire le fessure tra le pietre e a livellarne la superficie. Si passa quindi all'arriccio, che ha una grana un po' più fine, ma resta a buccia d'arancia per permettere al tonachino, ultimo strato che compone l'intonaco nel suo complesso, di potersi attaccare alla parete. Quando ancora è fresco, si procede a dipingere la superficie, realizzando prima una sinopia, uno schizzo in rosso delle figure, e poi si passa al colore.
Si dipingeva dall'alto verso il basso, dividendo il riquadro in giornate, ovvero la superficie che si poteva coprire in un giorno di lavoro (l'intonaco in eccesso veniva poi tolto prima che si asciugasse) e in pontate, che corrispondono ai diversi livelli del ponteggio, che man mano che si andava avanti con il lavoro, veniva abbassato.
Un esempio chiaro è quello che ci fornisce Giotto, nella Cappella degli Scrovegli a Padova. Nella Deposizione è infatti evidente la suddivisione in giornate, che spesso corrispondono a un personaggio del dipinto e in pontate: seguendo l'andamento orizzontale, è facile individuare degli stacchi netti.
Insomma, un occhio inesperto potrebbe pensare in tutti e due i casi che qualche vandalo sia passato di lì, eludendo la sorveglianza, armato di martello e scalpello! 

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