La Vergine delle rocce, Leonardo da Vinci, 1483-86, olio su tela trasportato da tavola, 198x123 cm, Museo del Louvre, Parigi |
La notizia dell'irrimediabile rovina della versione de "La Vergine delle rocce" di Leonardo da Vinci, conservata al Louvre, ha fatto il giro del mondo e ha costretto alle dimissioni due dei massimi esperti francesi : Segolen Bergeon Langle, responsabile delle operazioni di restauro di tutti i musei francesi, e Jean-Pierre Cuzin, ex direttore della sezione pittura del Louvre.
Il problema lamentato è un'eccessiva pulitura della superficie pittorica, che ha portato alla eliminazione di alcune parti dello sfumato, una delle tecniche caratteristiche del pittore rinascimentale fiorentino.
Che vuol dire esattamente?
Per chi non è esperto di tecniche pittoriche e di tecniche di restauro, come anche dei principi che lo regolano, vorrei chiarire alcuni concetti.
Innanzitutto, l'opera in questione è un dipinto ad olio su tavola trasportato su tela. Partendo dalla scheda tecnica del quadro è possibile comprendere il danno che è stato posto in essere in questo restauro.
La tecnica ad olio prevede l'utilizzo di pigmenti, maggiormente di origine minerale (non mancano le terre e quelli di origine organica, vegetale o animale) disciolti in soluzione in olio di lino, di noce, fino alla trementina. Il vantaggio di questa tecnica è che è possibile ritoccare costantemente, a più riprese un dipinto una volta asciutto, senza rischiare di mescolare il colore che si va ad apporre con quello sottostante; la lenta asciugatura, al contrario, permette di far compenetrare più facilmente i colori e semplificare la resa del modellato. Inoltre l'olio permette al colore di essere più elastico rispetto alla tempera, per cui si cominciò a sostituire il supporto pittorico, passando dalla tavola alla tela, che facilitava i trasporti delle opere per il commercio. Con la tempera pura non sarebbe stato possibile arrotolare le tele per sistemarle sulle navi mercantili, quindi con l'olio come legante si affermò anche la tela come supporto.
Tornare su dettagli, creare strati sovrapposti, ritoccare costantemente sono le azioni facilitate da questa tecnica e alcune di esse vengono dette velature (specie quando restano trasparenti, come un velo, per far emergere il colore sottostante, usate per cambiare una tonalità o per intonare tutto il quadro), ma rendono difficile distinguere i vari strati che si susseguono sulla superficie pittorica. Spesso, infatti, le velature non coinvolgono tutto il quadro, ma solo dettagli, particolari, porzioni più o meno piccole.
Si comprende come l'eccessiva pulitura lamentata, un andare troppo a fondo nel ripulite il quadro, abbia rimosso anche quelle velature che erano necessarie a dare sia il volume che la tonalità prescelta dal pittore. Sono stati eliminati dei dettagli espressivi: modificare i colori di un dipinto equivale a snaturare le scelte autonome espressive dell'artista.
Qual è il problema di questi restauratori? Contro cosa hanno combattuto così ardentemente? Contro la patina.
La patina è
"quella universale scurità che il tempo fa apparire sopra le pitture, che anche talvolta lo favorisce" (Baldinucci, Vocabolario toscano dell'Arte del disegno, Firenze, 1681).
Cesare Brandi ci fa notare che questa è la definizione migliore e che già all'epoca di Vasari si tramandavano alcune ricette per creare una patina artificiale, per invecchiare le opere, sculture comprese. Si comprende come a volte la patina sia stata già messa in conto dall'artista stesso, forse per dare un'aura particolare al prodotto finito.
Brandi, alla fine di un suo articolo, riportato in Teoria del restauro edito da Einaudi, dà un consiglio molto chiaro: data l'esistenza in tutte le epoche di tecniche atte a creare velature e vernici antichizzanti, quando ci si propone di restaurare, pulire una superficie pittorica, si deve dare per scontata la presenza delle stesse, con l'obbligo di dimostrare il contrario. Aggiunge che, se anche si dimostra che non ci sono, si deve considerare che siano state rimosse da un precedente intervento.
La patina è anche il simbolo del tempo che passa ed è impensabile eliminarla per portare l'opera "al suo stato originario, come fosse appena uscita dalla bottega del pittore, come se questi avesse appena posato il pennello". Sono espressioni odiose e prive di senso, perché anche solo l'ingiallimento dell'olio usato è una reazione irreversibile, coadiuvata dallo scorrere del tempo.
L'idea di far ringiovanire i dipinti, di eliminare la variante temporale da qualunque oggetto o persona, è una malattia tutta contemporanea. Purtroppo non è il primo dipinto che viene "distrutto" da interventi del genere. Un'opera di grande rilevanza privata delle sue velature e patine, tanto da renderla priva di espressività, è il "Battesimo di Cristo" di Piero della Francesca (1440-60, tempera su tavola, 167x116 cm), conservato in un'altra istituzione di tutto rispetto, la National Gallery di Londra. Gli angeli a sinistra del Cristo hanno perso molti dettagli nei volti.
Quello che a noi resta è un dipinto in parte rovinato e non si può tornare indietro.
3 commenti:
La cosa che non mi spiego è come mai gente che lavora presso enti di tale prestigio commetta errori così letali. L'avrei capito se il restauro l'avesse fatto un bottegaio di provincia, ma qui si parla del Louvre! Com'è possibile che sia i restauratori che i supervisori non abbiano previsto il risultato?
A volte si pecca di superbia, credo sia questo il problema principale della questione. Non è il primo museo importante a fare questo errore, purtroppo. Ci saranno errori di valutazione. Ho anche visto cose incredibili nei laboratori di restauro delle Soprintendenze, quindi non mi stupisco.
Molto interessante, avevo sentito la notizia ma non l'avevo compresa così nel dettaglio.
Restauro delle opere come chirurgia plastica?
"L'idea di far ringiovanire i dipinti, di eliminare la variante temporale da qualunque oggetto o persona, è una malattia tutta contemporanea.", sono d'accordo con te.
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