L’idea della tabula rasa può sembrare estrema nel suo genere. L’immagine dello zero assoluto, di cancellazione di ogni concetto e preconcetto, forse anche di esperienze e vissuti, sembra proporre una certa violenza contro sé stessi.
L’origine di questa locuzione non è così terrificante e affonda le sue radici in un’epoca antica, dove “fare tabula rasa” era un’azione naturale per chi utilizzava le tavolette di cera per esercitarsi nella scrittura o risolvere quesiti matematici. Bastava girare lo stilo e ricompattare la cera, per renderla pronta ad accogliere nuove parole.
Poi vennero i filosofi e lì qualcosa cominciò a complicarsi, perché l’immagine della tabula rasa venne utilizzata per spiegare concetti complessi. Dei filosofi non c’è mai da fidarsi e infatti utilizzarono questa semplice visione per illustrare la natura dell’intelletto umano, la condizione primordiale in cui si trova il nostro cervello, pronto a registrare qualunque stimolo esterno per riempire la mente. Dobbiamo però ricordare quacosa di molto importante, ovvero che «nella mente non c'è niente che non sia già stato nei sensi». Tutto ci riporta all’esperienza estetica e l’estetica ci riconduce per vie traverse all’arte. È di arte che vorrei discutere.
La ricerca artistica di Leo Ragno si dedica allo studio della figura umana. Si tratta si un soggetto privilegiato, rintracciabile in molti suoi lavori, affrontato in supporti delle più svariate dimensioni e attraverso tecniche differenti. L’essere umano è indagato profondamente, passando dall’esteriorità per giungere all’aspetto nascosto di ogni individuo. Spesso la lente d’ingrandimento del pittore sceglie dettagli di volti e corpi, senza fermarsi di fronte all’adozione di prospettive esasperate, pur di gestire lo spazio della tela nel modo più consono al suo messaggio.
Questa volta, nel suo nuovo progetto, propone il formato particolare del trittico. Le ragioni per una scelta di questa tipologia sono spiegate dalla volontà di creare un’opera unitaria, mettendo in evidenza che lo spazio rappresentato è sempre lo stesso, ma con delle differenze, che emergono solo dopo uno sguardo attento. Ogni pannello, di grandi dimensioni, rappresenta una parte di una stanza con al centro un tavolo, occupata di volta in volta da un soggetto diverso. La mente ci inganna, se pretendiamo di osservare il dipinto troppo in fretta: non sono tutti contemporaneamente in quella stanza, ma la scansione in tre parti dell’opera possiamo farla corrispondere a una scansione temporale. Le sedie vuote, che si notano di scorcio all’interno di ogni scomparto, smentiscono la presenza dei soggetti che occupano i pannelli adiacenti: ognuno è solo con sé stesso, immerso nella propria solitudine. A concorrere all’inganno c’è la luce, sempre la stesa per ogni pannello, mentre la finestraè muta nel tempo, fino a trovarci difronte alle ante accostate nel pannello di destra.
Incasellati nella propria porzione di trittico, gli sguardi delle tre figure non si incrociano; non si svolge nessuna azione del dipinto, tutti restano seduti compostamente nel loro spazio, non c’è comunicazione tra loro, ma il volto della donna a sinistra, che guarda verso il basso o più probabilmente verso sé stessa, richiama la nostra attenzione. Un invito? Forse sì. L’invito è rivolto alla nostra interiorità, a rivedere noi stessi in quella condizione particolare di attesa, ma di cosa? Una spiegazione è nella condizione dell’uomo contemporaneo. L’essere umano di oggi vive in un mondo carico di stimoli costanti, vive pienamente l’esperienza estetica e la stimolazione dei sensi diventa un modo di essere; questo bombardamento incessante, però, non fa che assuefarci e imperdirci di cogliere un qualsiasi guizzo, un qualsiasi stimolo capace di ridarci la nostra indipendenza intellettuale. Ecco che bisogna fermarsi, sedersi, non far nulla, anzi, “fare tabula rasa”, cancellare tutto e porsi in ascolto e in attesa della giusta rete di comunicazione tra il mondo e i sensi, riscrivere quella tabula, creare connessioni personali non governate da leggi altrui e prepararsi alla ripartenza.
La solitudine necessaria a questa operazione può sembrare qualcosa di orribile agli occhi di molti, ma essere capaci di ritrovare il proprio senso, la propria visione è importante per coltivare sé stessi in un egoismo sano e gratificante.
Avere senso per sé stessi e l’idea della variante tempo inserita nel trittico, che pone ogni figura all’interno di quello spazio in momenti differenti, lascia un filo sottile di speranza: chi si è seduto a quel tavolo si è poi rialzato per riprendere in mano la propria esistenza. Non si tratta di immobilità improduttiva, quanto di fermarsi per mettere fine all’infruttuoso movimento all’interno di un mondo fuori controllo.
Dello stesso registo possono considerarsi le altre opere presenti in mostra.
La serie de I seduti propone il tema dell’attesa con due figure, un uomo e una donna, viste di profilo, i volti non ben definiti, quasi per permetterci di identificarci in loro e nella loro condizione, e una sedia vuota, con un punto di vista dall’alto, forse osservata da qualcuno che sta per occuparla o che si è appena alzato. L’invito e la speranza si rinnovano, pur lasciando una critica alla società odierna come sottofondo a un’immagine che possiamo considerare positiva.
Tra le varie opere, i disegni e le incisioni spicca il Coniglio bianco. Nel nostro immaginario si tratta di un animale sempre in movimento, incapace di star fermo. Leo Ragno ha voluto incatenare anche questo soggetto alla logica dell’attesa, rappresentandolo immobile, frontale, in uno spazio indefinito.
“Tabula Rasa” ci offre un momento di riflessione sulla nostra interiorità, ci guida lentamente dentro e fuori il nostro tempo, ritagliando un angolo di pace.
Vi lascio il link del post gemello, sul blog di Leo Ragno: clicca qui.
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