L’idea della tabula rasa può sembrare estrema nel suo genere. L’immagine dello zero assoluto, di cancellazione di ogni concetto e preconcetto, forse anche di esperienze e vissuti, sembra proporre una certa violenza contro sé stessi.
L’origine di questa locuzione non è così terrificante e affonda le sue radici in un’epoca antica, dove “fare tabula rasa” era un’azione naturale per chi utilizzava le tavolette di cera per esercitarsi nella scrittura o risolvere quesiti matematici. Bastava girare lo stilo e ricompattare la cera, per renderla pronta ad accogliere nuove parole.
Poi vennero i filosofi e lì qualcosa cominciò a complicarsi, perché l’immagine della tabula rasa venne utilizzata per spiegare concetti complessi. Dei filosofi non c’è mai da fidarsi e infatti utilizzarono questa semplice visione per illustrare la natura dell’intelletto umano, la condizione primordiale in cui si trova il nostro cervello, pronto a registrare qualunque stimolo esterno per riempire la mente. Dobbiamo però ricordare quacosa di molto importante, ovvero che «nella mente non c'è niente che non sia già stato nei sensi». Tutto ci riporta all’esperienza estetica e l’estetica ci riconduce per vie traverse all’arte. È di arte che vorrei discutere.